Fuori dal bosco
a cura di / curated by Davide Di Maggio (Mudima, Milan)
Fuori dal bosco
Davide Di Maggio
“Io son, è vero, un bosco, ed una notte di cupi alberi: ma chi non ha timore della mia oscurità saprà scoprire anche fioriti rosai tra i miei cipressi.”
(Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, 1885, Parte seconda - La ballata)
L’opera d’arte è qualcosa di meraviglioso, un problema di meraviglia per l’artista che la realizza e per chi ha il privilegio di guardarla. Perché non ci sono altre cose in questa epoca che ci possono meravigliare a sufficienza.
L’arte è come un’idea di economia, di economia spirituale. Non si può pensare solo di discuterla, di parlarne, di guardarla e di studiarla. È un problema di stupore, è come una cosa bella, la vedi come si muove nello spazio, diventa un po’ come un luogo di battaglia, è come una nuvola, è quello che lascia dietro di sé, quello che descrive.
Tutto questo è Giovanni Bonaldi, arte universale la sua, che agita lo spazio e mescola il tempo, acquisendo quella perennità che gli consente di diventare un vero e proprio teatro della memoria che sposta dal passato al presente verso il futuro il nostro pensiero. Non più un’arte solo esistenziale, autoreferenziale, ma un’arte che duri nel tempo.
È come guardare le montagne che circondano Serina, il suo paese natale. La montagna sembra una cosa statica, sempre uguale, perenne, ma nello stesso momento è una cosa incredibile per quello che contiene e ti crea stato di meraviglia, di stupore. Ti chiedi se descriverla oppure se è più importante sentirla, respirarla, odorarla.
Io credo che questa sia la cosa più importante nel lavoro di Bonaldi, perché quello che vedi già esiste e non è poi così importante descriverlo. Possiamo quasi osare nel definire questo lavoro un archivio del patrimonio olfattivo. Nel momento in cui percepiamo un odore, esiste in quell’istante e poi svanisce, mescolandosi con altre molecole dell’ambiente. Non è mai costante. Guardando quelle montagne, invece, ho definito quanto sia importante, in un luogo così solido, respirare. Raccogliere dati attraverso il respiro e l’olfatto è una cosa che non si fa comunemente nello studio di un artista, ma nel caso di Bonaldi viene naturale. Le sue opere diventano un attivatore di tutti i sensi, catturando micro-momenti come il respiro con molteplici memorie collettive rivelate dall’odore.
Con il loro ricco portato di memoria è fondamentale avvicinarsi alle sue opere con cautela e prendendosi il giusto tempo, per assicurarsi che non perdano la loro essenza e diventino una rappresentazione superficiale di immagini che abbiamo già incontrato.
Come ha scritto André Breton, “in questa mostra c’è quello che ho già visto molte volte, e che anche altri mi hanno detto di avere visto, quello che credo di poter riconoscere, sia che ci tenga, sia che non ci tenga; c’è quello che ho visto solo raramente e che non sempre ho deciso di dimenticare; c’è quello che, per quanto mi sforzi di guardare, non oso mai vedere e che è tutto ciò che amo… c’è anche quello che io vedo diversamente da come lo vedono tutti gli altri, e persino quello che comincio a vedere e che non è visibile” (Il surrealismo e la pittura, 1928).
Il suo lavoro è una sorta di ossessione personale, e il mondo in crisi deve aggrapparsi a un sano portatore di ossessioni e di visioni. Ed è proprio l’artista che deve avere questa responsabilità. In questo incredibile stato di debolezza culturale e sociale che il mondo vive, l’unica grande ancora di salvezza è l’immaginazione e la visione.
Al di là dei generi, il lavoro di Giovanni Bonaldi evolve verso una sempre più precisa definizione di forme essenziali: l’anima, la spiritualità, il pensiero, la natura e la memoria. I momenti miracolosi, quegli attimi in cui l’occhio, la mente e il cuore sembrano disporsi sulla stessa linea e non rimane che fermare, in questo modo, un istante decisivo.
Io penso che ogni attività artistica passi attraverso il corpo di altri artisti, questa è una cosa importantissima. Qualunque tipo di arte si faccia, si deve sempre tutto a tutti. Giovanni Bonaldi non nasconde le sue fonti di ispirazione, anzi le dichiara. Non si sente fonte di verità assoluta, pura, non vuole essere inventore di nulla di nuovo. In arte non si cerca il nuovo.
Come ha scritto Roland Barthes, “senza dubbio l’immagine non è il reale; ma ne è quanto meno l’analogo perfetto”, dove egli intende la percezione di una realtà riprodotta tale e quale senza alcuna mediazione. L’immagine che Bonaldi ci presenta è proprio questa, la sua realtà senza alcuna mediazione, e non ha importanza che questa realtà sia anche di altri.
Purtroppo viviamo in un’epoca dove la realtà viene sistematicamente manomessa, alterata, modificata per scopi abbietti e tutto diventa terribilmente più difficile sia per l’artista, sia per chi guarda.
L’opera di Bonaldi invece è fondante e carica di significati perché sposta l’attenzione sulla funzione reale piuttosto che estetica dell’arte. L’artista bergamasco si muove con le immagini che conosce meglio e che lo circondano, che sono le sue presenze, quelle di cui riesce a sentire il sapore e l’odore, e in cui si sposta con grande naturalezza; il bosco, la natura, la memoria, la sua appartenenza alla cultura ebraica, si estendono a costruire una casa della coesistenza delle differenze, dove non solo il dialogo tra i diversi materiali diventa imprescindibile, ma dove anche il suo intervento diretto sullo spazio umano, nella nicchia esistenziale che ognuno di noi si costruisce nell’ambiente, diviene la condizione di partenza del suo lavoro.
Per lui realizzare un’opera diventa l’omaggio a un’idea e all’interno c’è disciplina che segue quasi con eroismo. I lavori di piccole dimensioni sono per lui come fantasmi, che non controlli con le mani ma con la mente; le opere di grandi dimensioni, invece, sono come una quadriglia di cavalli imbizzarriti dove c’è questa incredibile meraviglia di dover tenere saldamente le briglie, di controllarla, di stabilire un rapporto sia con il tempo, sia con l’energia e con la sua economia spirituale, personale. La seduzione delle sue opere nasce dal bisogno di creare un varco e un lampo nel pratico inerte del quotidiano, uno stupore che lacera l’orizzontale impermeabilità attraversante lo scambio sociale. Un’arte concentrata sugli aspetti essenziali e decisivi del suo pensiero, e ciò comporta un’intensità che non è presente nella realtà quotidiana e che risulta difficilmente comprensibile a coloro che non sono artisti.
Colui che non è artista vive nella sua frammentata quotidianità, mentre negli artisti, paradossalmente proprio grazie all’apparente allontanamento dalla vita di ogni giorno, la vita trova la sua piena espressione. I suoi lavori diventano così il suo segno distintivo e vengono ridisegnati da un nuovo linguaggio assumendo quell’aspetto concettuale voluto dall’artista, stabilendo una interdipendenza tra comunicazione verbale e comunicazione visiva.
Esiste una metafisca concettuale nelle opere di Bonaldi che non lascia transitare più di tanto la nostra voglia di entrarci. Il nostro occhio assedia l’immagine e corteggia il suo pensiero, ma senza mai poter entrare in contatto con il movimento, quel movimento interiore che rimane proprietà privata dell’artista.
Il tempo umano scorre inesorabile, la vita ha un limite di tempo che nessuno ancora può superare. Giovanni Bonaldi ne è ben consapevole, ma l’arte gli permette di varcare questa soglia. Le sue opere diventano segni che si tramandano, testimonianze di epoche passate, presenti e future, di tempo umano vissuto ma ancora attuale.
Nella mostra tempo, immagine e pensiero agiscono determinando un senso di armonia, di scambio reciproco, di tensione sequenziale verso la leggerezza, la sopportazione dell’essere, che si muove in uno spazio in cui le cose possono essere ripensate nuovamente, appunto lo spazio dell’arte. Lo spazio umano indissolubilmente legato al tempo, il tempo come metafora centrale dell’intera struttura di significato dell’opera d’arte e della vita. Come gli spazi che abitiamo esprimono il significato del decorso della nostra vita, così i lavori in questa mostra possono esprimere il significato metaforico del decorso temporale che ha portato alla loro creazione, un rituale che si tramanda, immutabile.
L’arte in qualche modo deve operare un passaggio che trasforma qualcosa in qualcos’altro, e questa è la chiave per capire il lavoro dell’artista bergamasco, che agisce applicando leggi proprie che gli permettono di superare la visione che l’arte impone, le stesse leggi che sono state utilizzate dai pittori del Rinascimento quando hanno iniziato a dipingere utilizzando le regole della prospettiva e della luce, perché anche l’arte è prospettiva e luce.
Marcel Proust ha detto che “l’arte dimostra di quanti istanti effimeri la vita sia fatta e acquista un po’ della dignità che le manca quando cessa di essere una riproduzione della realtà”, ma l’effimero non appartiene al lavoro di Bonaldi, anzi ne sottolinea il distacco. Il risultato è ammaliante, invita alla riflessione. Accende la mente anestetizzata dal poco che ci circonda.
La costanza nel suo lavoro non è solo la forma, ma è anche il contenuto di questa mostra che vuole opporre una resistenza forte, per non essere a sua volta metabolizzata in una forma effimera che non le appartiene, rivelando oltre alle opere l’artista stesso, come punto di riferimento e centralità, e i lavori realizzati per la mostra sono stati scelti per riflettere il rapporto tra l’artista, il suo intimo e la sua responsabilità nei confronti della società, seguendo l’idea che l’arte deve creare un’opposizione e il segno dell’artista è l’unica cosa che può produrre una nuova prospettiva.
Ciò accade negli spazi della Fondazione Mudima, dove le opere non sono di semplice comprensione e nascondono un percorso intimo e profondo che fa assumere loro una posizione forte e precisa. Lo status di opere d’arte permette loro di diventare muri portanti nello spazio, non più freddo contenitore ma membrana connettiva.
Nell’epoca che stiamo vivendo la ragione non ha saputo più dare un senso alle cose e sta portando alla deriva. Bonaldi mette in opera questo smarrimento, la ragione ha tradito e non guida più le azioni dell’uomo a cui si sostituisce il caos e l’irrazionalità. L’arte deve assumersi la responsabilità di creare un’opposizione, una controffensiva efficace rispetto a questo determinato fine, con il potere di simulare, cioè riprodurre e tenere viva non solo la forma ma l’unicità interiore dell’opera, facendo affiorare il carattere e l’anima di chi la realizza. La mostra si pone dunque come momento di riflessione corale, in cui lo stimolo alla meditazione non è riservato solo al pubblico ma rappresenta una fonte d’ispirazione e di ricerca in progress anche per l’artista, ritrovatosi a lavorare e a ragionare sulle idee, attento a leggere nelle pieghe del loro tempo, come ogni artista contemporaneo deve poter fare.
Il concetto della mostra alla Fondazione Mudima, racchiude metaforicamente anche il processo naturale dell’uscita dal bosco e risulta perfettamente calzante e congeniale all’idea di rinnovamento e di ripresa attraverso l’arte messo in atto da Giovanni Bonaldi. Non occorre dunque procedere troppo oltre per comprendere le ragioni legate alla proposta di una mostra dedicata a un’immaginaria fuga dal bosco, non serve forzare o rimarcare nulla, poiché è tale la suggestione proveniente da questo luogo così evocativo, che ogni spunto dedicato all’arte contemporanea rappresenta una naturale conseguenza di un discorso tra uomo e natura. La mostra vuol essere un omaggio alla sensibilità di un artista alla ricerca di una nuova identità, introducendosi in un altro spazio, allargando così un varco che normalmente sembrava precluso.
L’interpretazione che Bonaldi ci dà rappresenta uno spunto di riflessione sul tema di tipo alternativo e complesso, procedendo in maniera analitica lungo aspetti poetici, storici, filosofici evocati dal concetto di bosco. L’artista bergamasco ha rielaborato in modo estremamente personale questa tematica giungendo a esiti formalmente risoluti ed espressivamente convincenti.
Bonaldi ha preso possesso delle sale espositive in maniera discreta, quasi sottovoce. Da una parte con interventi minimi e delicati, instaurando con il luogo una profonda empatia, dall’altra con lavori di grandi dimensioni, stabilendo con lo spazio un duplice rapporto di riverenza e potenziamento insieme, ma sempre in punta di piedi. Gli esiti ambientali di queste grandi installazioni rimarcano il loro essere tracce di una memoria che necessita di rimanere viva e non di essere semplici simulacri passeggeri.
La sua condizione di artista che vive, opera e risponde alle sollecitazioni del mondo, lo preserva da ogni sterile cinismo o atteggiamento autodistruttivo; il suo lavoro possiede una forte capacità rigenerante, che porta nuova linfa ai gangli vitali di questa società in cui tutti noi stiamo vivendo, ed è animato da un profondo pragmatismo culturale, tanto da permettergli di esercitare il suo ruolo con forza e passione, sostenuto da un vero sentimento a-morale, libero da ogni tipo di vincolo o pregiudizio.
Tra storia e attualità, tragedia e salvezza, è evidente che i lavori di Giovanni Bonaldi propongano una narrazione complessa che parte da molto lontano ma che ci riguarda da molto vicino: una complessità che può tradursi in disorientamento in chi guarda, lasciando tuttavia che alla fine in qualche misura si plachi e scompaia cedendo il posto alla meraviglia delle montagne, perenni guardiane di una società ormai in grande declino, ai boschi che le ricoprono, custodi di favole e misteri, dai quali cerchiamo di uscire, non sempre riuscendoci, e allo spazio vitale dell’arte.