Tutto di personale
Fabio Mantegna - a cura di Davide Di Maggio
Oltre i limiti della visione
a cura di davide Di Maggio
“Camminare all’aperto, di notte, sotto il cielo silente, lungo un corso d’acqua che scorre quieto, è sempre una cosa piena di mistero, e sommuove gli abissi dell’animo”. Cit. Hermann Hesse (dal racconto “Bella è la gioventù”, 1907).
Osservando il lavoro fotografico di Fabio Mantegna, vengono alla mente i componimenti poetici giapponesi, gli haiku, (XVII secolo), basati sulla sintesi e sullo stupore di fronte al mondo.
Per la loro immediatezza e apparente semplicità, gli haiku furono per secoli una forma di poesia popolare trasversalmente diffusa tra tutte le classi sociali in contrasto alle costruzioni retoriche dei poemi di allora.
In realtà l'haiku è invece molto complesso perché si colloca tra percezione veloce e riflessione profonda e nonostante sembri improvviso, dipende da grandi e alllenate capacità tecniche ed espressive.
L'opera fotografica di Fabio Mantegna sembra apparentemente immediata e di semplice realizzazione, ma come un haiku nasconde una notevole capacità tecnica e una libertà espressiva non comune.
Il soggetto delle immagini in mostra è spesso una scena rapida ed intensa, che descrive la natura del suo lavoro e ne fissa i particolari nell'attimo presente. La immediata percezione del Mantegna dell'attimo da cristallizzare in una fotografia è sinonimo di grande talento e il risultato è un immagine dai contorni secchi, semplici, senza alcun titolo, che elimina fronzoli lessicali e retorici, traendo la sua forza solamente dalla suggestione dell'attimo.
Questa estrema concisione nel suo lavoro, lascia spazio ad un vuoto ricco di fascinazione che sta a chi osserva completare come un metaforico puzzle.
Come scriveva André Breton, “...c'é quello che ho già visto molte volte, e che anche altri mi hanno detto di avere visto, quello che credo di poter riconoscere, sia che ci tenga, sia che non ci tenga; c'é quello che ho visto solo raramente e che non sempre ho deciso di dimenticare; c'é quello che per quanto mi sforzi di guardare non oso mai vedere e che è tutto ciò che amo...c'é anche quello che io vedo diversamente da come lo vedono tutti gli altri, e persino quello che comincio a vedere e che non è visibile... ” (Il Surrealismo e la pittura, 1928).
Nella fotografia di Fabio Mantegna c'è tutto questo, un lungo corso d'acqua che scorre quieto, ma che smuove la nostra mente e la nostra anima.
Una fotografia non mostra soltanto qualcosa che appartiene a chi l’ha scattata, così come non riguarda esclusivamente quel soggetto che vi è stato colto in un particolare momento è in luogo specifico. Le immagini piuttosto devono vivere in mezzo a questi due poli, e aggiungere qualcosa che non si trova né nell’uno né nell’altro. Le fotografie del Mantegna, nell’ambito di un intenso lavoro portato avanti negli ultimi anni, superano con forza questa idea di una fotografia esclusivamente autoreferenziale e autobiografica e i suoi scatti non possono neanche essere considerati alla stregua di un reportage di documentazione sociale. È così che emerge un’identità espressiva specifica che tiene insieme tutto il lavoro e gli conferisce forma e riconoscibilità.
Come scrive Giovanni Arpino, “...le mani di un fotografo sono importanti, decisive, come le mani di un pittore, di un concertista...” e le mani di Fabio Mantegna riescono a cogliere iI momento, quell'attimo in cui, l’occhio, la mente e il cuore sembrano disporsi sulla stessa linea e non rimane che scattare e fermare, in questo modo, un istante decisivo, insieme metafora e documento di quel che si è visto, di quel che si è.
Partendo dallo scritto di Roland Barthes “...senza dubbio l'immagine non è il reale; ma ne è quantomeno l'analogo perfetto” dove egli intende la percezione di una realtà riprodotta tale e quale senza alcuna mediazione, la fotografia in qualche modo deve operare un passaggio che trasforma qualcosa in qualcos'altro. Questo ha capito Fabio Mantegna che riesce a rappresentare la sua realtà e la sua immaginazione, varcando i confini della fotografia lasciando la mente libera di viaggiare.
La chiave per capire il suo lavoro va cercata nel fatto che agisce applicando leggi proprie che gli permettono di superare la visione monoculare che la fotografia impone, le stesse leggi che sono state utilizzate dai pittori del Rinascimento quando hanno iniziato a dipingere utilizzando le regole della prospettiva e della luce, perché anche la fotografia è prospettiva e luce.
Il suo lavoro parte dalla fotografia ma prende subito altre strade. La macchina fotografica è solo un mezzo che gli permette di esprimere quello che per un fotografo spesso è impossibile: uscire daalla realtà che ci circonda per entrare in una Wunderkammer, in una realtà personale che diventa universale permettendoci di lasciarci entrare.
In État donnés di Marcel Duchamp (1946-1966), il buco nella serratura ci consente solamente di sbirciare, di sognare di entrare, di immaginare, ma rimane solamente un sogno, Fabio Mantegna iinvece apre quella porta svelando il suo mondo. Il suo essere libero lo pone al riparo dai limiti, dagli stereotipi degli stili, dalle mode. Le sue fotografie non sono da adulare, non sono da giornali, non hanno a che fare con l'effimero della nostra società.
Marcel Proust ha detto che “La fotografia é l'arte di mostrare di quanti istanti effimeri la vita sia fatta e acquista un po' della dignità che le manca quando cessa di essere una riproduzione della realtà”, ma l'effimero non appartiene al lavoro di fabio Mantegna, anzi ne sottolinea il distacco, un mondo dove l'uomo non è protagonista, ma quasi una marionetta mossa da mani invsibili.
Il risultato è ammaliante, invita alla riflessione. Accende la mente anestetizzata dal nulla che ci circonda, dallo sgorgarre inarrestabile di immagini inutili.
La sua è una ricerca lucidissima di un mondo dove esprimere la propria immaginazione e renderla visibile agli altri con un grande senso di profondità.
Ed è dunque da questa ricerca, da questa radicale capacità di rimessa in discussione di ogni punto di vista, da questa capacità di sovvertire il nostro sguardo, che bisogna partire per comprendere la sua fotografia.